Alfonso Botti - 07/ 2010
La sintesi del semestre spagnolo di presidenza di turno della UE appena conclusosi sta in poche parole: enormi aspettative, partenza roboante, navigazione stentata nella tormenta, recupero nelle settimane finali. Zapatero e il suo governo avevano investito molto sull’occasione, alla quale si affidavano per un rilancio d’immagine che servisse anche a distogliere l’attenzione dai problemi interni (economici anzitutto e di crollo della fiducia nella sua leadership). Di qui l’ambizioso programma per il periodo, le cui priorità erano state concordate con l’opposizione popolare: coordinamento delle politiche economiche e fiscali europee, lotta alla disoccupazione, applicazione del trattato di Lisbona, avvio del dibattito sulla Strategia UE 2020. Ad esso si aggiungeva l’enfasi posta sul delicato compito di plasmare un modello di coabitazione, valido per il futuro, con i nuovi vertici della UE entrati in funzione con l’applicazione del trattato di Lisbona. Inovar Europa – questo il lemma scelto dalla presidenza spagnola – sul fronte istituzionale, economico e della politica estera. Con l’aggiunta del proposito di varare una politica comunitaria in materia di diritti di cittadinanza europea, eguaglianza di genere e lotta alla violenza contro le donne. Poi, come si diceva, la navigazione, tormentata fin da subito sulle acque internazionali, con l’immane tragedia di Haiti a cui dover far fronte, il rinvio deciso i primi di febbraio da Obama del vertice Stati Uniti-UE, inizialmente previsto per il mese di maggio, e il mancato vertice dell’Unione per il Mediterraneo. E soprattutto accidentata sulle acque interne con l’accostamento della situazione spagnola a quella greca, la sfiducia dei mercati, il declassamento del paese iberico da parte delle agenzie di rating, che facevano tremare Zapatero, preso tra due fuochi. Da una parte gli scricchiolii dell’economia spagnola, con la necessità di mettere finalmente mano a misure drastiche per fare uscire il paese dalla crisi, dall’altro l’urgenza di svolgere un ruolo nella UE per adottare provvedimenti idonei ad evitare la bancarotta dei paesi dell’Eurozona a rischio di crollo, con relativo effetto domino. A metà della traversata la presidenza spagnola di turno rischiava d’incagliarsi, sul piano internazionale e interno. Indi, il parziale recupero delle ultime settimane, con le severe misure adottate dal governo Zapatero (tagli ai salari del pubblico impiego, congelamento delle pensioni e riduzione degli investimenti pubblici) al fine di ridurre il deficit pubblico di 8 punti sul PIL in quattro anni. A cui si sommava la svolta rappresentata dalle decisioni, tardive ma rilevanti, dell’Ecofin del 9-10 maggio, inerenti le transazioni finanziarie, il più rigoroso coordinamento delle politiche di bilancio, il sostegno ai piani d’austerità dei governi mediterranei, la pubblicazione dei risultati dei test di resistenza delle banche (fortemente voluto dalla Spagna) e il varo dell’Agenda UE 2020. Per concludere con l’appoggio dato dai Ventisette, in particolare da Sarkozy e Merkel, al piano d’austerità spagnolo e con gli elogi alla conduzione del semestre nel Consiglio Europeo del 17 giugno. Un giudizio equanime sul semestre non può prescindere dalla gravità della situazione che la presidenza spagnola si è trovata a dover fronteggiare. Le dimensioni della crisi economica internazionale, le raffiche dei venti euroscettici, le mareggiate identitarie e la ripresa delle correnti nazionaliste, portavano, come mai era avvenuto, il progetto europeo a un passo dal naufragio. Il ritardo di due mesi nell’insediamento della nuova Commissione Barroso rallentava la navigazione. Ridotti l’equipaggio e le provviste in cambusa, dal momento che la presidenza spagnola ha avuto a disposizione solo 40 funzionari (la Svezia ne aveva avuti più del doppio nel 2009), con un bilancio di 55 milioni di euro (un terzo di quanto avuto dalla Francia nel 2008). Alla luce di queste enormi difficoltà e delle reali condizioni in cui la Spagna è giunta alla presidenza di turno, è da riconoscere che la coabitazione con i nuovi vertici europei ha, nel complesso e scontando qualche contraddizione, funzionato; che per quanto tardiva una risposta comunitaria alla crisi greca è stata fornita; che qualche risultato positivo si è ottenuto nel vertice UE-Marocco della prima metà di marzo e soprattutto nei vertici di Santander e Madrid della UE con l’America Latina e i paesi dell’area caraibica di maggio, e pure con la ripresa dei negoziati UE-Mercosur. L’iter che dovrebbe condurre i cittadini europei a poter proporre riforme legislative alla Commissione Europea è stato avviato. La creazione di un Osservatorio Europeo contro la violenza alle donne, e altre iniziative contro la violenza domestica, pure. Di contro il mancato decollo di una politica estera comune appare scarsamente compensato dall’accordo raggiunto il 21 giugno a Madrid sul Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE), che l’Europarlamento dovrebbe ratificare in luglio per entrare in vigore entro la fine dell’anno. Così come non c’è chi non veda il minimalismo della nuova agenda Europa 2020. Una postilla su Cuba. Zapatero e il suo ministro degli Esteri Moratinos si erano proposti di premere sulle istituzioni europee per modificare la posizione comune adottata nel 1996 nei riguardi dell’isola caraibica. Una prospettiva che aveva irritato profondamente il Partito Popolare e la stampa, quasi i socialisti volessero sdoganare il regime castrista. Le pressioni della Chiesa cubana, con Moratinos come intermediario che ha condotto alla liberazione di alcuni detenuti politici, seguita dall’ammorbidimento della posizione statunitense, fortemente voluta da Obama, nei confronti del regime cubano, sono un segnale di conforto per la politica estera spagnola. Il problema, tutto e solo politico, è quello di adottare la migliore strategia per favorire il rispetto dei diritti umani e la transizione cubana verso la democrazia. E non è da escludere che, a questo proposito, la diplomazia spagnola faccia tesoro dell’esperienza maturata nel tempo in cui gli ambienti democratici e di sinistra europei cercarono di disincentivare il turismo come strumento di pressione sulla dittatura di Franco, quando oggi tutti riconoscono che furono proprio i flussi turistici uno dei fattori di svecchiamento della mentalità degli spagnoli e del sostegno che la maggioranza di essi diede alla transizione democratica. In conclusione, un ponderato bilancio del semestre presenta luci e ombre. Ciò è quanto riflette anche l’opinione pubblica spagnola, divisa tra la pregiudiziale monocromatica di “ABC”, che ha considerato “grigia” la presidenza spagnola fin dalla presentazione del programma all’Europarlamento e Bruxelles come tomba politica di Zapatero, e il giudizio formulato da “El País” che, dopo aver definito un “calvario” il cammino della presidenza spagnola fino al giro di boa, ha concluso rilasciandole un voto di sufficienza, media tra l’insufficienza ottenuta considerando le aspettative e il buono conquistato guardando la situazione interna di partenza della UE e della Spagna. Più ombre che luci, infine, nella percezione dei cittadini. Il barometro del CIS di giugno ha rilevato che solo il 17,7% degli spagnoli si dice soddisfatto dell’operato della presidenza spagnola, contro il 31,5% di insoddisfatti, mentre secondo un sondaggio effettuato dall’Istituto DYM per conto di "ABC", il 48% degli intervistati disapprova il lavoro svolto dal presidente di turno, con un 13% che ha preferito astenersi dal giudizio. Brown è uscito di scena. Sarkozy naviga in cattive acque. La Merkel ha perso le elezioni regionali in Nord Reno-Westfalia e annaspa vistosamente. Che Zapatero non stia tanto bene, non è un mistero per nessuno. Non lascia, però, l’Unione Europea peggio di come l’aveva trovata e non ritrova una Spagna in condizioni peggiori di come l’aveva lasciata.
Alfonso Botti
(Università di Modena e Reggio Emilia)
La sintesi del semestre spagnolo di presidenza di turno della UE appena conclusosi sta in poche parole: enormi aspettative, partenza roboante, navigazione stentata nella tormenta, recupero nelle settimane finali. Zapatero e il suo governo avevano investito molto sull’occasione, alla quale si affidavano per un rilancio d’immagine che servisse anche a distogliere l’attenzione dai problemi interni (economici anzitutto e di crollo della fiducia nella sua leadership). Di qui l’ambizioso programma per il periodo, le cui priorità erano state concordate con l’opposizione popolare: coordinamento delle politiche economiche e fiscali europee, lotta alla disoccupazione, applicazione del trattato di Lisbona, avvio del dibattito sulla Strategia UE 2020. Ad esso si aggiungeva l’enfasi posta sul delicato compito di plasmare un modello di coabitazione, valido per il futuro, con i nuovi vertici della UE entrati in funzione con l’applicazione del trattato di Lisbona. Inovar Europa – questo il lemma scelto dalla presidenza spagnola – sul fronte istituzionale, economico e della politica estera. Con l’aggiunta del proposito di varare una politica comunitaria in materia di diritti di cittadinanza europea, eguaglianza di genere e lotta alla violenza contro le donne. Poi, come si diceva, la navigazione, tormentata fin da subito sulle acque internazionali, con l’immane tragedia di Haiti a cui dover far fronte, il rinvio deciso i primi di febbraio da Obama del vertice Stati Uniti-UE, inizialmente previsto per il mese di maggio, e il mancato vertice dell’Unione per il Mediterraneo. E soprattutto accidentata sulle acque interne con l’accostamento della situazione spagnola a quella greca, la sfiducia dei mercati, il declassamento del paese iberico da parte delle agenzie di rating, che facevano tremare Zapatero, preso tra due fuochi. Da una parte gli scricchiolii dell’economia spagnola, con la necessità di mettere finalmente mano a misure drastiche per fare uscire il paese dalla crisi, dall’altro l’urgenza di svolgere un ruolo nella UE per adottare provvedimenti idonei ad evitare la bancarotta dei paesi dell’Eurozona a rischio di crollo, con relativo effetto domino. A metà della traversata la presidenza spagnola di turno rischiava d’incagliarsi, sul piano internazionale e interno. Indi, il parziale recupero delle ultime settimane, con le severe misure adottate dal governo Zapatero (tagli ai salari del pubblico impiego, congelamento delle pensioni e riduzione degli investimenti pubblici) al fine di ridurre il deficit pubblico di 8 punti sul PIL in quattro anni. A cui si sommava la svolta rappresentata dalle decisioni, tardive ma rilevanti, dell’Ecofin del 9-10 maggio, inerenti le transazioni finanziarie, il più rigoroso coordinamento delle politiche di bilancio, il sostegno ai piani d’austerità dei governi mediterranei, la pubblicazione dei risultati dei test di resistenza delle banche (fortemente voluto dalla Spagna) e il varo dell’Agenda UE 2020. Per concludere con l’appoggio dato dai Ventisette, in particolare da Sarkozy e Merkel, al piano d’austerità spagnolo e con gli elogi alla conduzione del semestre nel Consiglio Europeo del 17 giugno. Un giudizio equanime sul semestre non può prescindere dalla gravità della situazione che la presidenza spagnola si è trovata a dover fronteggiare. Le dimensioni della crisi economica internazionale, le raffiche dei venti euroscettici, le mareggiate identitarie e la ripresa delle correnti nazionaliste, portavano, come mai era avvenuto, il progetto europeo a un passo dal naufragio. Il ritardo di due mesi nell’insediamento della nuova Commissione Barroso rallentava la navigazione. Ridotti l’equipaggio e le provviste in cambusa, dal momento che la presidenza spagnola ha avuto a disposizione solo 40 funzionari (la Svezia ne aveva avuti più del doppio nel 2009), con un bilancio di 55 milioni di euro (un terzo di quanto avuto dalla Francia nel 2008). Alla luce di queste enormi difficoltà e delle reali condizioni in cui la Spagna è giunta alla presidenza di turno, è da riconoscere che la coabitazione con i nuovi vertici europei ha, nel complesso e scontando qualche contraddizione, funzionato; che per quanto tardiva una risposta comunitaria alla crisi greca è stata fornita; che qualche risultato positivo si è ottenuto nel vertice UE-Marocco della prima metà di marzo e soprattutto nei vertici di Santander e Madrid della UE con l’America Latina e i paesi dell’area caraibica di maggio, e pure con la ripresa dei negoziati UE-Mercosur. L’iter che dovrebbe condurre i cittadini europei a poter proporre riforme legislative alla Commissione Europea è stato avviato. La creazione di un Osservatorio Europeo contro la violenza alle donne, e altre iniziative contro la violenza domestica, pure. Di contro il mancato decollo di una politica estera comune appare scarsamente compensato dall’accordo raggiunto il 21 giugno a Madrid sul Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE), che l’Europarlamento dovrebbe ratificare in luglio per entrare in vigore entro la fine dell’anno. Così come non c’è chi non veda il minimalismo della nuova agenda Europa 2020. Una postilla su Cuba. Zapatero e il suo ministro degli Esteri Moratinos si erano proposti di premere sulle istituzioni europee per modificare la posizione comune adottata nel 1996 nei riguardi dell’isola caraibica. Una prospettiva che aveva irritato profondamente il Partito Popolare e la stampa, quasi i socialisti volessero sdoganare il regime castrista. Le pressioni della Chiesa cubana, con Moratinos come intermediario che ha condotto alla liberazione di alcuni detenuti politici, seguita dall’ammorbidimento della posizione statunitense, fortemente voluta da Obama, nei confronti del regime cubano, sono un segnale di conforto per la politica estera spagnola. Il problema, tutto e solo politico, è quello di adottare la migliore strategia per favorire il rispetto dei diritti umani e la transizione cubana verso la democrazia. E non è da escludere che, a questo proposito, la diplomazia spagnola faccia tesoro dell’esperienza maturata nel tempo in cui gli ambienti democratici e di sinistra europei cercarono di disincentivare il turismo come strumento di pressione sulla dittatura di Franco, quando oggi tutti riconoscono che furono proprio i flussi turistici uno dei fattori di svecchiamento della mentalità degli spagnoli e del sostegno che la maggioranza di essi diede alla transizione democratica. In conclusione, un ponderato bilancio del semestre presenta luci e ombre. Ciò è quanto riflette anche l’opinione pubblica spagnola, divisa tra la pregiudiziale monocromatica di “ABC”, che ha considerato “grigia” la presidenza spagnola fin dalla presentazione del programma all’Europarlamento e Bruxelles come tomba politica di Zapatero, e il giudizio formulato da “El País” che, dopo aver definito un “calvario” il cammino della presidenza spagnola fino al giro di boa, ha concluso rilasciandole un voto di sufficienza, media tra l’insufficienza ottenuta considerando le aspettative e il buono conquistato guardando la situazione interna di partenza della UE e della Spagna. Più ombre che luci, infine, nella percezione dei cittadini. Il barometro del CIS di giugno ha rilevato che solo il 17,7% degli spagnoli si dice soddisfatto dell’operato della presidenza spagnola, contro il 31,5% di insoddisfatti, mentre secondo un sondaggio effettuato dall’Istituto DYM per conto di "ABC", il 48% degli intervistati disapprova il lavoro svolto dal presidente di turno, con un 13% che ha preferito astenersi dal giudizio. Brown è uscito di scena. Sarkozy naviga in cattive acque. La Merkel ha perso le elezioni regionali in Nord Reno-Westfalia e annaspa vistosamente. Che Zapatero non stia tanto bene, non è un mistero per nessuno. Non lascia, però, l’Unione Europea peggio di come l’aveva trovata e non ritrova una Spagna in condizioni peggiori di come l’aveva lasciata.
Alfonso Botti
(Università di Modena e Reggio Emilia)
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