Versión libre, di Marco Schwartz
Los nombres sí importan, ministra Mato
Ana Mato ha iniziato male il suo lavoro presso il Ministero della Sanità, Servizi Sociali e Uguaglianza.
In una dichiarazione rilasciata nella serata di lunedì per segnare l'ultimo l'omicidio di una donna per mano del suo partner, ha definito l'incidente come un caso di "violenza in ambito familiare", evitando in ogni momento di usare il termine "violenza di genere" che compare nella legge del 2004, approvata da tutti i partiti al Congresso, tra i quali quello della stessa ministra, il PP. A quanto pare, non è stata una omissione accidentale, come la ministra, ha dichiarato ieri intervistata sull'argomento. Il primo comunicato della ministra ha provocato indignazione in ampi settori della società, ma dal ministero hano rifiutato di rettificare il comunicato, perché "la cosa importante non è il nome ma il dato, molte donne sono ancora vittime di persone che in teoria dovrebbero amarle".
Non ci vuole un linguista per sapere che la società attraverso l'uso corretto dei nomi da la giusta importanza alle cose. E a volte, i nomi e le parole possono contribuire ad un cambiamento di mentalità nei cittadini, soprattutto per inaccettabili manifestazioni culturali, come il machismo. Questo è esattamente ciò che ha cercato di fare la legge del 2004 con l'introduzione del termine "violenza di genere": lottare contro il becero indottrinamento (d'indubbia ispirazione patriarcale) che l'abuso delle donne sia cosa relegata all'interno della famiglia e che come tale debba essere vissuta come una questione intima, domestica, in cui nessun altro deve interferire.
Commette, quindi, un grave errore la ministra nello sminuire il crimine e qualificarlo per la zona in cui è avvenuto, e non concentrarsi sulla causa per cui è avvenuto.
E' un'atteggiamento quello della ministra che presuppone un evidente passo indietro nella già difficile lotta per l'uguaglianza
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